Un esempio concreto di questa nuova tipologia di paesaggio è l'installazione Blur di Elizabeth Diller & Ricardo Scofidio, che lavora proprio sul paradigma artificiale/performativo e che, grazie ad input ed output scambiati con l'ambiente circostante, genera uno spazio dinamico, fluido ed in continua mutazione, costituito dalle particelle dell'acqua del lago di Yverdon-les-Bains, nebulizzate tramite ugelli che rispondono al cambiamento di alcuni parametri atmosferici.
Discutendo di questa opera performativa durante la lezione, mi è subito venuto in mente l'architetto giapponese Toyo Ito, che ha da sempre assunto una posizione aperta nei confronti delle tecnologie digitali, che hanno mutato in maniera sostanziale le condizioni di lavoro dell'architetto. Nella visione di Ito, questa nuova realtà viene letta e interpretata con estrema lucidità attraverso un linguaggio spesso immaginifico, ricordando a tratti quello delle avanguardie, e soprattutto assume connotati positivi, così che questo nuovo tipo di espressione non risulti connesso con uno dei luoghi comuni più radicati delle tecnologie come fonte di alienazione. Trovo estremamente affascinante la proposta dell'architetto giapponese, secondo il quale, grazie alla diffusione delle tecnologie, un corpo non esiste più in maniera separata ed autonoma rispetto al mondo esterno, ma è come un'entità potenziata dal computer, dall'informatica, che, sfocando le barriere del corpo e della mente, collega più strettamente l'uomo con il mondo e la natura circostante. Questo tipo di pensiero è molto affine al concetto espresso da Blur di Diller & Scofidio, in cui il paesaggio generato dalle gocce nebulizzate rende sfocati ed evanescenti i confini tra spazio interno e natura esterna, che è la definizione stessa che Ito ci propone in merito alla blurring architecture.
L'architettura evanescente è quell'architettura dai confini morbidi e diffusi, capace di mescolare l'interno costruito con l'esterno naturale e capace di reagire all'ambiente circostante.Natura ed architettura, dunque, non sono più concetti opposti, ma fenomeni che si integrano reciprocamente e che vivono in un rapporto analogico: la natura, costituita da vegetazione, e lo spazio urbano, costituito da edifici, sono entrambi governati da flussi, per l'una naturali (fiumi, vento), per l'altro artificiali (relazione tra gli spazi, collegamenti). Per questo motivo, più che considerare l'architettura come un'espressione morfologica contrapposta all'ambiente, Ito la concepisce come un sistema autonomo ma integrato in un sistema superiore che è quello naturale, che ne diventa anche principale fonte di ispirazione.
L'opera più celebre di Ito è senza dubbio la Mediateca di Sendai, costituita da tredici "tubi" irregolari che attraversano i sei piani dell'edificio e che, diversamente dai tradizionali elementi di sostegno, sono cavi all'interno per contenere scale, ascensori, condotti per la ventilazione. Tutto è lasciato completamente a vista, siamo di fronte ad uno spazio pensato per creare flussi diversificati di persone, informazioni ed elementi naturali come la luce, l'aria, i suoni ed in cui l'immagine dominante è quella del mondo sottomarino, un mondo scolpito dalle correnti, che costantemente ad esse si adatta. Le alghe sono il riferimento preso da Ito quando immagina il sistema strutturale dell'edificio, perché gli suggeriscono elementi irregolari, flessibili e che saranno essi stessi a rendere l'idea principale di un edificio aperto al flusso delle informazioni.
In un certo senso, è come se Ito scolpisse una natura totalmente artificiale, che non vuole in alcun modo essere in contrasto con quella reale, ma che ha con essa un rapporto di reciproco scambio, in cui il mondo acquatico sottomarino si interseca con la dimensione artificiale dei media creando un nuovo paesaggio mentale.